L’Ammore

Un giorno ti innamorerai e forse, se non avrai troppo pudore, mi chiederai cos’è l’amore.

Non lo so, e credo che al mondo non ci sia qualcuno che possa saperlo. Pretendere di sapere, con certezza matematica, cosa sia l’amore è come pretendere di conoscere il nome di ogni persona che ti passa innanzi.

Non si può dire, sarebbe inutile. Per qualcuno è pioggia, per qualcuno è vento, per altri sarà mare. Per me è stata festa.

Ricordo un pomeriggio di molti anni fa’. Ero, nonostante i miei trent’anni, ancora un giovanottone che della vita conosceva il lavoro, gli amici e la spensieratezza di chi non vuole e non ha legami. Ero lontano dall’amore come una cima di montagna dal mare.

Beh, quel pomeriggio mi decisi ad andar in un paesino vicino a trovare un’amica. Non si può definire proprio un’amica, lei era molto più piccola di me tanto che il solo conoscerla mi metteva un po’ a disagio. Non mi figuravo uno di trent’anni amico di una ragazzina poco più che ventenne.

C’era baldoria, nelle vie del paese si dimenavano mille voci e visi, la musica era prepotente e sferzava le orecchie come quando il vento soffia arrabbiato. Camminavo in cerca dell’amica e ad un tratto le voci si spensero e la musica sparì.

Quella che io chiamo amica in quel preciso istante divenne mia moglie. La vidi da lontano in compagnia di qualcuno. Sulla sua pelle creola scorreva il mondo intero, dentro al folto dei capelli legati c’era tutta la giovinezza dell’eterno. La vidi e mi sentii come se tutto quello che fosse stato fatto dall’inizio del tempo fosse stato fatto solo per quel momento.

La vidi arrivare leggera e camminare sugli aghi, non faceva rumore o io non lo sentivo.

Odore di zucchero filato e mandorle tostate, fiume di persone che vivevano, rumori, grida e gioia per me non erano niente. Il tempo di quei pochi passi si trasformò in una eterna solitudine di pensieri e palpiti. Il mondo avrebbe permesso che arrivasse a me quella ragazza dalla pelle creola e dalla bellezza mia è solo mia?

L’eternità passò come passa il vento, la salutai, la baciai e fui suo per sempre. Nel grembo di quel paese chiesi la sua mano ad ogni Dio del mondo e mi fu concessa.

L’Ammore è come na festa, per me, ma festa muta, sorda e cieca, una festa di eterno e vento, mare e onde. L’Ammore per me è una cosa ben specifica ma lo è solo per me. L’Ammore si chiama come si chiama tua madre e solo questo basta a dire al cielo che ha fatto bene.

L’Ammore, figlia mia, viene, ti prende e gioca come tu fai con il sasso. Lui sa cosa sei tu ma non il contrario. Per te sarà qualcosa di diverso, per me è stato quello.

L’Ammore è vient, L’Ammore è mare, L’Ammore è Tempest ma qualunque cosa sia per me L’Ammore ten o nomm e tua madre.

L’abbonamento.

Li vedi camminare, veloci, sempre al telefono, stretti in giacchette striminzite ma alla moda. Pantaloni stretti, forsanche più delle giacche, con un risvoltino che lascia vedere caviglie pallide e senza peli. Premono piedi perfetti dentro a scarpe di pelle di chissà che fottuta marca e portano in giro le loro teste in ordine e le loro barbette da neonati a fare qualcosa.

Dev’essere qualcosa di importante, si muovono camminando a passo svelto e sembra che l’intero corso delle cose dipenda da quanto abbiano da fare. Camminano, parlano, trovano un attimo per specchiarsi in una vetrina. Non credo che trovino mai il tempo di vedere quanto siano ridicoli.

Mi fanno venire i brividi questi tipetti tutto valigetta e slang finanziario, preferirei un sobborgo di una qualsiasi città piena di ubriachi e assassini a questa merda che cammina in scarpe di marca e che profuma più di una donna ad una prima della scala.

Vorrei prendere uno per quella cravattina sgraziata e minuscola e trascinarlo a denti in terra finché il suo muso non somigli al culo di un cane. Mi danno fastidio quelli che credono che il mondo sia ai loro piedi. Non li digerisco.

Non li conosco, non so cosa fanno e come lo fanno. Li vedo in metropolitana confusi dentro i loro cazzo di telefonini a fare cose stupide avvolti nei loro vestiti firmati. Non si reggono, il moto del treno non li scalfisce, la fottuta inerzia non gli interessa,sembrano piantati al pavimento.

‘i picchiacchielli’, questo era il termine per indicare queste persone, a Napoli li chiamano così. Un genere di persone, che noi povere merde che vestivamo robe del mercato, odiavamo per partito preso. Nemmeno gli stessi bar frequentavamo, le donne andavo con loro perché i loro padri avevano la barca e la villa a Posillipo.

Oggi me li ritrovo a centinaia di chilometri di distanza ancora profumati come un tempo e con la stessa puzza sotto al naso che sa tanto di onnipotenza.

Sarà che io appartengo alla classe dei reietti, di quelli che il pomeriggio correvano per le vie di una periferia qualunque a strappare pantaloni e tirare calci ad un pallone. Forse il fatto che ebbi il mio primo jeans di marca quando avevano imparato a copiarli e al mercato te li vendevano per poche lire, forse questo me li faceva invidiare. Ne avevamo a dozzine nei loro armadi, nelle loro case a due piani buttate nelle colline della Napoli bene.

E un ragionamento semplice mi veniva alla mente a quei tempi:’ma se quella è la Napoli bene io vivo nella Napoli male?’

La risposta era si tutte le volte. La mia era la Napoli fatta male, quella dei lampioni rotti e dei cumuli di monnezza. La Napoli mia era quella delle interminabili code di puttane lungo la Domiziana. Nella Napoli sbagliata venivano a scaricare merda e poi la seppellivano con velo di terra, nella Napoli sbagliata un gelato era tanto perché era raro.

Si deve essere questo che me li fa odiare, la pura e semplice invidia. Eppure, sento che non è tutto lì, non può essere solo questo, non può essere solo un jeans o un po’ di merda a fare tutta sta differenza. Mi sa che è una cosa più profonda della semplice e pura invidia.

E allora rimango a fissarli, cerco di capirmi più che capire il tizio tirato come un manichino. Al di là del fatto che mi dia fastidio il lussureggiare di quelle figure non c’è motivo per cui io debba odiare uno stile, un modo d’essere. Insomma, per Dio, sono una persona adulta ed avrei dovuto passare la fase acuta delle mie invidie da giovane studente squattrinato e mediocre.

In effetti quello che più mi infastidisce non è quel prototipo di persona; alla fine anche lui tornerà a casa e si spaccherà di cocaina fino all’indomani, in quale cavolo di modo può immaginare uno cosi? Forse che anche lui non sia un povero diavolo che cerca di vivere la vita come gli si para innanzi?

Devo dire che dopo un po’ che ci rimugini capisci che non è il fighetto di turno a darti fastidio ma è la direzione a stomacarti.

Quel cazzo di treno che va sempre allo stesso posto, la stessa cazzo di fermata e ogni giorno uguale a quello di mille altre vite buttate sui sedili ad aspettare sempre la stessa cosa.

Magari il tipo con la giacchetta mi sta sulle palle ma non è solo lui che mi sta sulle palle, in quel fottuto vagone, nelle mie fottute giornate non c’è proprio niente che non mi stia sulle palle.

La direzione. Si deve essere questa che mi da questo senso di nausea, andrò a casa e mi farò un paio di birre.

Dire che odio l’umanità è enorme, dire che ne odio il novanta percento è verosimile, ma quello che odio veramente è una vita intera passata a odiare senza un motivo diverso se non per il fastidio.

E allora succede ti metti e scrivi un mare di puttanate che nessuno leggerà mai e allora diventi acido, cattivo e anche scorretto.

A dire il vero non mi interessa nemmeno capire veramente cosa mi stia o non mi stia sui coglioni. Sono codardo e dovrei semplicemente ammettere che la cosa che più mi sta sui coglioni sono io, ma sono apatico, noioso, abitudinario e pigro e trovo che prendermela con il mondo sia molto più semplice.

Cosa ci sarà mai di male nell’ordinario?

Secondo me c’è tutto il male che ci possa essere.

Rinchiusi dentro le nostre pelli passiamo tutti i fottuti attimi delle nostre vite in un sistema ordinato, ovvio, semplice, comodo, ci menzioniamo raramente.

Si, effettivamente non è il tipo in giacchetta che mi sta sui coglioni, almeno non solo lui, ma quello che rappresenta.

Uno stile, un’abitudine, un modo. Ma perché cazzo di motivo nella vita ci vuole un modo, uno stile, un’abitudine? Per quale cazzo di motivo dovrei essere quello che ci si aspetti che sia quando non me ne frega niente di essere come gli altri mi vogliono?

Voglio sentire i discorsi di ubriachi e pazzi, voglio pisciare nei padiglioni del Louvre, voglia correre contro un treno e volare nelle fogne. Si dice che nelle fogne scorra tutta la sapienza del genere umano. Magari li potrei sentire solo la loro puzza senza dover subire le loro parole.

A chi interessa andare dove tutti vanno? A chi dovrebbe interessare mai il perché dell’andare degli altri? Non sarebbe meglio impazzire di libertà? Non sarebbe meglio bruciare arsi dal delirio, dalla passione, dal vino? Non è poi splendido perdersi?

No! Categorico, secco, indiscutibile! No e poi no.

Non si può, non è concepibile. Con cosa cazzo paghi le mutande, l’affitto, le birre, la tua libertà da disco orario, il tuo vaneggiare, le parole degli ubriachi e i tuoi sogni di rivoluzione libertaria?

Sei un pazzo se pensi che scrivere non ti costi nulla, se credi di poter dire ogni puttanata senza dover pagare un conto, se credi che quel che dici e pensi abbia un fottuto senso oltre le mura del tuo stupido cranio.

Non rimane altro che alzarsi, fare una doccia e rivestirsi. Uscire, camminare e fare un’altro fottuto abbonamento della metro.

Droga.

Eravamo seduti in un parcheggio, la puzza di merda che saliva dall”impianto idrovoro era nauseabonda. In lontananza si sentivano le onde rompersi sui pilastri di cemento di quel mostro, mezzo parcheggio e mezzo cesso.

Risate sensa un senso si alternavano ad altre risate e le canne giravano di mano in mano senza seguire nessuna logica, l’unica logica, che pareva esserci, era il numero di tiri. Questi dovevano essere uguali per ognuno e poi si passava.  Risate, risate, silenzi alterni per fumar e ancora stupide risate. Talvolta qualcuno si alzava, faceva due passi e pisciava e, per quanto ti sforzassi, non riuscivi a non percepire altra puzza, si mescolava al resto e alle risate, risate e piscio e tutto era lì, non si poteva pretendere altro.

In vita mia non ho mai fumato o assunto droghe di nessun tipo, avevo ed ho paura, mi conosco e so di non avere limiti ed ho sempre preferito concedermi qualche birra piuttosto che farmi di quella merda, dove son cresciuto o ti facevi o eri fuori.

Io bevevo, bevevo da fare schifo, spesso quei quattro rincoglioniti erano meno ubriachi di me, ridevano e pisciavano persi nella convinzione di poter vedere oltre, con i sensi alterati erano convinti di varcare delle fottute porte, morti dentro la convinzione di essere superiori. Mi facevano ribrezzo, non si riusciva ad articolare una fottuta frase senza che scoppiassero risate inutili. Spesso li lasciavo fumare e me ne stavo per i cazzi miei a bere e guardare le stelle sperando che sparissero tutti nella merda che scivolava sotto.

Ne ho vista di merda, ne sentivo il puzzo, quell’odore sembrava permeare tutto; dalle porte, dalle mura, dai marciapiedi, da ogni angolo di quel buco di quartiere usciva puzza di merda, anche la vita delle persone sembrava andare e venire con la puzza.

Una mattina d’estate mi svegliai e, come al solito, mi affaciai al balcone della mia camera, la mia camera era bella, aveva una vista sul mare che avrebbe risvegliato i cadaveri, lo vedevi il mare, lo sentivi, sentivi il vento sempre soffiarti addosso,  ma poi arrivava sempre quella merda a ricordarti che tutto quel bello era troppo distante.

In quel preciso istante riuscivi a vedere che, appena poco prima delle onde, la monnezza formava enormi cumuli, riuscivi a vedere le case disastrate dalla salsedine, la strada erosa in mille enormi buche, le facce della gente storte nel gesto di chi avverte il fetore. Lì comincia a vedere oltre il bello e tendi la mano al frigo per prendere un po’ di saccente cultura imbottigliata per non sentire e vedere la merda che hai intorno.

Una di queste mattine, tronfio e pieno della mia cultura da stappare, girovagavo per la spiaggia cercando di scansare un copertone o l’ennesima siringa e mi imbattei in quello che una volta era uno stabilimento balneare. Non c’erano neanche più i cessi del vecchio stabilimento, tutto era distrutto, macerie confuse a monnezza e sopra ancora altra merda a ricordare che da lì non si scappa. Entrai con la mia compagna tra le dita, con i piedi spostavo cose per farmi spazio. Dopo un paio di minuti passati a farmi largo in quel merdaio sentii voci stridule impegnate in nessun discorso ma perse in altre e inutili risate. Trovai i miei stupidi, soliti, stronzi con cui condividere il più assoluto niente.

Mi sedetti senza che quasi se ne accorgessero, questa volta si stavano facendo di crack. Un puzzo acido mi assali le narici, fui infastidito ancora più del solito, mi sedetti e continuai a bere. Pensai a quanto avrei voluto avere altre birre e che magari quegli stronzi sparissero. Mi alzai, andai a comprare altra birra,  tornai da quegli stronzi che, se non erano spariti fisicamente, erano spariti, chissà dove, con le loro menti. Mi sedetti e prima di aprire l’ennesima birra comincia a parlare di mille fottute cose fino a che anche io rimasi zitto, perso dentro e fuori da quella merda fatta di niente.

Non ero meglio, non ero peggio, non ero niente in quel posto fatto di niente. Ero come qualcosa trascinato con mille altre cose da un fiume in piena. Un fiume di vite, di cose non fatte, un fiume di attimi persi, un fiume di merda colmo di tante cose che merda non sono. Quel giorno uno di quegli stronzi decise di seguire il fiume ed ebbe la bella idea di addormentarsi per non svegliarsi più.

Vita, essere pulsante, idee, sogni, bisogni, sputo e sangue se ne andarono in silenzio, tra il piscio e la monnezza, senza rumore, senza disturbare, inutile, discreto, timido.

Quel giorno qualcuno se ne andato nel fiume.

Passarono giorni prima che riuscissi ed essere di nuovo padrone di me, giorni interi passati a vomitare. Le viscere mi si torcevano nell’addome come se una bestia si divertisse a masticarle. Il cervello era completamente fisso su un particolare insignificante: ‘Al mare’, una scritta ancora viva su una parete di quel posto maledetto.

Non mi importava di quello che aveva deciso di lasciarci le penne, non mi importava de fiume dove stavo decidendo di bagnarmi, mi importava solo di quella cazzo di scritta sul muro e di quanto io non fossi così diverso dallo stronzo che non respira a più.

Decisi che una birra avrebbe fatto al caso mio. Prima che me ne accorgessi mi ritrovai con troppe bottiglie vuote e il cervello che non voleva cancellare quella stupida inutile scritta. Non avevo niente per essere com’ero, non avevo il diritto di fare quello che facevo e avevo il dovere di tentare di fare quello che non facevo. Ricomincia a vomitare.

Conobbi una tipa, non so, non ricordo come, ma la conobbi. Mi prendeva per il culo facendomi credere che scrivessi bene e per qualche motivo cominciai a crederci. Beveva più di me e scopava con chiunque sembrasse un tipo maledetto e controcorrente. Io non dovetti sembrarle né l’uno, né l’altro perché non la scopai mai. Non so perché la ricordo, fu una frequentazione breve e per niente interessante; ma cosa lo era?

Un giorno, di ritorno da qualche parte, una festa, forse, mi disse : “mi sa che ti sei innamorato di me!”

Io le risposi che forse aveva bevuto troppo e che se avesse potuto evitare di rompermi le palle sarebbe stato meglio.

Lei ribatté che era inutile fingere e che se volevo scoparla sarebbe bastato che glielo chiedessi.

Rimasi in silenzio, guidavo la mia cazzo di macchina e pensavo a quanto fosse sporco e inutilmente diretto quello che quella stronza mi aveva detto.

Fermai l’auto, mi chinai verso la sua portiera e l’aprii.

“Scendi!”, le dissi a muso duro in modo che non potesse replicare.

Scese e non la vidi più.

Tornai a frequentare il tugurio in cui venivo, alternavo qualche birra a qualche bicchiere di vino. Evitavo i luoghi dove le risate diventano inutili. Pensavo e bevevo e più pensavo e più mi trovavo con le budella arse dalla birra e dal vino. Vivevo nella convinzione che la mia droga fosse una medicina, guardavo gli altri ridere di niente e non sentivo altro.

Tornai e ritornai a frequentare quelle inutili compagnie tenendomi sempre ad inutile distanza, credendo di essere diverso, migliore o peggiore.

Il puzzo di chi va nel fiume l’ho rivisto, lo sento ancora oggi, il mio puzzo non va via e mai andrà via. La droga l’ho vista, sentita, vista uccidere tra i fumi e la merda, l’ho vista togliere figli alle madri, l’ho sentita chiamare il nome dalle mura di stanze fetide fatte di piscio e risate tristi, l’ho scacciata con la paura, l’ho sentita arrivare con terrore.

Oggi bevo qualche birra ogni tanto, oggi quel parcheggio e quelle macerie sono distanti.

Oggi l’unica cosa che rimane è tutto il frastuono di quelle risate stupide, rimane solo quel campanello a tintinnare e a ricordarmi di essere vivo per un niente. Non ricordo i visi di chi se ne andato, non mi servono, ricordo solo che mille tintinii non ci sono più.

Odio follemente.

Io odio tutto quello che si può odiare, amore mio grande. Bimba mia, non pretendo che tu possa, o debba, mai capire le mie parole, ho solo la necessità di scriverle per non lasciare nulla di intentato. 

Io conosco l’odio, lo provo, lo conservo, lo uso e non lo rinnego. Ovviamente, ed è giusto, tu considererai queste affermazioni come insensate, inusuali, se scritte dalla stessa mano che ti carezza così amorevolmente, eppure non lo sono.

Considera il mio odio come un vezzo intellettuale, una velleità di cui mi fregio per non sparire sotto il peso di un mondo ottuso ed indifferente. Considera, questa mia particolare condizione, come un errore e come tale dovrai considerare questo scritto: un errore madornale che scrivo per non tenerlo solo per me.

Odiare è più semplice, odiare è più comodo, non ha bisogno di sentir brividi correre lungo la schiena e non ha necessità del dolore quando viene colpito. L’odio, diversamente dall’amore, ha il dono di essere assoluto e, in qualche modo, staccato dalla nostra fisicità. L’odio è comodo perché è semplice.

Ora ti chiederai: ok, ho capito che ti è comodo odiare, ma perché odi, cosa odi?

Odio il male che il nostro genere fa, odio l’ipocrisia che si nasconde in ogni artefatto umano, odio la filosofia spiccia delle religioni, odio Dio costruito a mo’ di soprammobile, odio quello che l’uomo fa a l’uomo da millenni.

Bimba mia, vedere, sentire, pensare, essere, evolvere è una cosa che nessuno ci ha regalato, tantomeno un dio dipinto qua e là. Il bene di essere ce lo siamo guadagnati anche nonostante i vari dii che sono nati e cambiati nel corso del tempo. Noi esistiamo in quanto esseri non solo perché l’amore decantanto della misericordia ci ha generato. Noi esistiamo in quanto specia ed animali e questo è più forte di ogni singola parola scritta come ammonimento eterno.

Questa capacità di essere ci ha arricchito, ci ha fatto evolvere e, in fine, ci sta uccidendo.

Odio perché non siamo capaci di comprendere la nostra grandezza, odio perché abbiamo bisogno di inventare un oltre per darci un senso, odio perché non siamo capaci di riconoscere la nostra innata capacità di amare.

Ecco dove casca l’asino. Qualcuno odia perché non è capace di fare qualcosa di innato come amare? Respirare? Questa è una contraddizione senza se e senza ma! Questa è pura e negletta follia!

Queste sono le domande e le affermazioni che ti salteranno alla mente e sarebbero più che leggittime se io non continuassi.

Figlia mia, guarda cosa facciamo a noi stessi, guarda quello che fa un’arma quando spara, guarda cosa fa un uomo ad una donna, guarda cosa fa il padre al figlio e il figlio al padre. Non soffermarti alla notizia letta sul quotidiano ma scendi nella follia di una violenza che ti appartiene solo perché ne leggi un trafiletto. Siamo incapaci di calarci nella profondità della follia e siamo incapaci di cogliere la folle perversione del male che l’uomo infligge ai suoi pari. Questa è la cosa che più odio al mondo. La mia ottusa, smisurata incapacità di guardare oltre il mio naso è la cosa che più detesto e detesto l’enorme limite che ho di percepire il vero male che io provoco così come quello che fanno gli altri.

Come vedi il mio non è un odio gratuito e insensato, non odio solo perché è più facile. Odio perché non riesco a capire come non si possa amare incondizionatamente tutto in modo vero e senza bisogno che qualcuno ti insegni cosa è giusto e cosa è sbagliato.

Condizioni, regole, questo è bene, questo è male, devi, non devi.

Sono parole che pesano, sono parole che troverai anche nella credenza, le troverai quando sentirai che uomini uccidono uomini perché qualche altro ha comandato che si facesse, le troverai quando sentirai le urla di donne che non osano ribellarsi alla violenta mano che le stupra, le troverai quando genti diverse saranno tali solo perché non hanno il tuo stesso incarnato o perché credono un’altra assurda serie di credi.

Queste parole pesano nell’animo mio come dovrebbero pesare nella coscienza di ognuno e, per quanto mi sforzi, queste parole mi spingono ad odiare l’incapacità di amare incondizionatamente.

Guardo te e vedo mille altri bambini, guardo te e sento il pianto del bambino avvolto tra le madri africane che soffrono la sete, guardo te e sento e vedo le braccia rinsecchite della donna vessata da anni di usurpazione e stupro, guardo te e vedo il male che non dovrebbe esserci e allora odio. Odio tutto perché non dovrebbe esistere tanto male un male così distante che a volte mi sembra di non percepirlo.

Amore, amore mio, bimba mia…….

Non sono un nichilista, ne un decadentista, vedo solo e forse vedo male.

Vorrei un mondo dove il nero non è così diverso dal bianco, vorrei un mondo dove donna significa donna, madre, bellezza, vorrei un mondo dove uomo non sia sempre sinonimo di muro, differenza, emarginazione, morte. Voglio il mondo per quel che è: una immensa, meravigliosa macchina di bellezza, una meravigliosa perla persa nel profondo di una vastità pienda di altre perle. Voglio….vorrei che l’amore non fosse condizionato all’odio di una specie poco degna di tanta suprema meraviglia.

Come vedi amore non sono incapace di amare, anzi, io amo tanto le cose, il mondo e anche la specie umana che diventa impossibile non odiarla per il male che produce. Diventa un’esigenza odiare chi,in nome del sinonimo più alto di amore, si rende colpevole di ignoranza e violenza senza farsi scrupolo di relegare ogni parvenza di umanità a semplice spirito di appartenenza.

Non sono un religioso e non lo sarò mai, non mi interessa ne la religione ne chi fa di essa uno strumento di assoggettamento, di controllo e di cultura. Abbiamo il dovere di evolvere in qualcosa di migliore rispetto a quello che vogliono le religioni, abbiamo il dovere di essere migliori.

Le religioni sono la massima espressione di quello che poteva essere, ma che non è, che mi risulta molto facile odiare. Eppure, non odio il concetto di Dio, ma che sia un Dio inclusivo e mai esclusivo, che sia un Dio che si manifesti nell’interezza e mai nella differenza, che sia un Dio che non ha bisogno di assurde pratiche per essere manifesto alle nostre coscienza.

Come vedi amore neanche Dio odio perché non sarebbe vero e non sarebbe giusto. Odio solo tutto l’amore che è possibile e che non si vuole creare.

L’odio non è poi tanto diverso dall’amore che non esiste.

Silenzi…

Scivolano, cadono, forse sorgono.

Incedere lento, cauto, fine, forse timido.

Silenzi inframezzati di cose, ostacolati da gemiti, incorniciati da ottusi suoni, silenzi attoniti senza timore di essere posti a termine.

Silenzi asciutti e nudi, intrisi di folle lucida bellezza.

Dove soffia il vento, dove nasce, dove muore il vento?

In silenzio saluto il cuor mio nei tuoi palpitanti attimi.

Shhhh, non serve altro.

La stanza nella roccia

3

Così come accade ai ragazzi dell’età di Jim l’avventura della fabbrica rumorosa scivolò via in una notte.

Il sonno spesso lava via incertezze e domande così come il vento spazza via la brina dall’erba, non sempre gli accadimenti solcano vie ben definite nella memoria e, anche se il turbamento è molto, la mente riesce sempre a dare spazio a qualcosa di più conciliante, meno spigoloso.

Così accadde, Jim continuò le sue giornate come se il suo fastidio per i rumori di quella fabbrica fossero stati l’ennesimo cozzare di spade in una delle sue fantastiche battaglie. 

Le corse si alternavano alle corse e le avventure ad esse, tutto era rientrato nella, per quanto edulcorata, normalità di un bambino di campagna la cui vista e mente era naturalmente predisposta al bello.

Sarebbero passate inosservate anche le eterne chiacchiere del signor McPowell con il padre di Phil. Nell’ultimo periodo i due erano soliti incontrarsi la sera e discutere di qualcosa che riguardava terre lontane.

Si sentivano discutere di Germania, Italia, Austria e, Dio solo sa di quale altra nazione, sembrava che i loro discorsi si accendessero quando oggetto della discussione sembravano delle popolazioni chiamate ‘crucche’.

Per quanto Jim si sforzasse di ricordare quel nome, avrebbe pur dovuto ricordargli qualcosa per la sua passione geografica, proprio non riusciva a capire di quale nazionalità parlassero e certo, pensava, che quei discorsi dovevano riguardare qualcosa di estremamente intricato e noioso.

Le sue orecchie udivano termini che non aveva mai sentito, termini come : fronte, artiglieria, trincea, armistizio, offensiva. 

Pensava che i due parlassero di questioni politiche e non prestava mai molta attenzione, anche perché, i due uomini ne parlavano in modo da non rendere la discussione appetibile alla mente di un ragazzo dell’età di Jim.

Questi continuava ad ascoltare a sprazzi, un po’ come quando si ascolta una lezione noiosa a cui si presta attenzione solo distrattamente quando il corso dei propri pensieri subisce una battuta d’arresto. 

Una sola parola Jim conosceva bene ed era:’Guerra’. 

Al risuonare di quella parola il ragazzo si faceva attento, evidentemente i due uomini stavano parlando sicuramente di qualcosa di fantastico. Sicuramente stavano ricordando battaglie epiche di qualche re del passato e allora aguzzava l’attenzione e cercava di cogliere il senso di quei discorsi.

Tutte le volte che la sua attenzione veniva catturata si tornava a parlare di avanzate, rifornimenti, armate, stato maggiore e mille altre cose che proprio cozzavano con le capacità fantastiche della mente di Jim Il quale tornava a girovagare per conto suo nelle sue fantasie.

Per Jim la guerra era qualcosa che poteva durare al massimo il tempo di un’arrampicata o una corsa, qualcosa che trovasse il massimo grado di fervore quando un drago o un cavaliere  venisse abbattuto da una mirabolante sciabolata data all’aria o ad un pietra trasformata in freccia. 

Ecco quella per Jim era la guerra. 

Compimento istantaneo di una storia, se pur completamente concepita, veloce e semplice.

Non era concepibile per il ragazzo che una tenzone potesse riguardare più di due soggetti, che qualcuno trovasse accettabile dover combattere se non per salvaguardare l’onore o una principessa.

L’immediatezza dei pensieri di Jim non erano banali, si intenda bene, erano semplicemente quelli per cui la mente di un ragazzino è nata. Niente banalità e niente pochezza nelle avventure di Jim, essere erano vere per quanto lo dovevano essere e le guerre erano quelle che dovevano essere per lui.

Certo, e questo sarà condivisibile, tali concezioni non sono errate perché non corrispondo alla realtà di una guerra di adulti esse sono giuste proprio perché non hanno nulla a che fare con la stortura cosciente che fa la realtà della guerra, non dovrebbe mai nemmeno esser concepita come un fatto diverso dalle idee di Jim.

Sostanzialmente l’idea di Jim era più che corretta, la guerra, i cavalieri, l’onore, le conquiste dovrebbe appartenere solo al gioco di un bambino e mai occupare discorsi di adulti, mai dovrebbe tradursi in qualcosa che duri più di un sospiro.

Per Jim la guerra era un gioco, innocente come rincorrersi o leggere di pirati ed avventurieri.

Insomma per Jim la guerra era una cosa con cui divertirsi dove discorsi di ritirate, offensive e tutto il resto non avevano il minimo senso perché il gioco trovava la sua serietà nel compimento immediato e sognatore e bastava questo, il resto era roba da grandi.

Era questo il meccanismo che faceva affievolire in Jim l’attenzione per i discorsi degli adulti, proprio non sapevano di cosa stessero parlando e questo lo annoiava terribilmente.

Questo delicato equilibrio trovo il suo punto di rottura quando dovettero recarsi in paese per l’ennesima vendita di lana. 

Quello che non stupiva il signor McPowell stupiva invece il ragazzo e non poco.

Alle mura delle case troneggiavano manifesti raffiguranti un militare con il dito puntato come ad indicare chi lo guardasse. 

Il viso severo, deciso e i lunghi baffi conferivano al volto del soldato un’aria ancora più imperativa. 

Sul capo del militare vi era una scritta che diceva “BRITONS” e sotto il mento del soldato vi era un’altra scritta che diceva “wanted YOU” con quello you in maiuscolo, poco a destra dell’indice puntato che sembrava voler quasi cadere giù dal manifesto ed attaccarsi addosso.

Jim rimase interdetto, non fece in tempo a staccare gli occhi da quel manifesto che già un altro e un altro ancora si proponevano al ragazzo; l’intimazione era sempre la stessa e gli occhi del militare non smettevano di seguire Jim. 

Quegli occhi erano severi, categorici, immediati, e gravi; Jim non riusciva a staccare gli occhi da quella faccia, quelle parole scritte, ordinate, ma confuse nella mente del ragazzo, lo informavano senza mezzi termini che il suo paese si stava Armando e che quel signore lo cercava, lo voleva, comandava.

Istintivamente il ragazzo strinse la manica della giacca del padre e camminava così come camminano i bambini quando percorrono una strada ma che hanno lo sguardo rivolto all’indietro. 

Quella faccia si alternava a cupe, troppo cupe, mura grigie e parve a Jim di accorgersi per la prima volta di quanto fossero gravi quei mattoni, quelle case sembravano non respirare sotto il peso del loro fosco grigiore. 

Ad un tratto parve che pesasse, a quelle mura, quella faccia e Jim proprio non sapeva spiegarsi tutto quel trambusto che gli passava per la mente. Quell’uomo gli metteva paura e lui la paura non aveva mai avuto necessità di capirla. 

Chiese al padre:”Padre perché il nostro paese si arma? Perché quel signore dice di cercarmi?”

Il signor McPowell rispose, nascondendo un riso triste:” Jim quel signore non sta cercando te che sei un bambino, ma sta cercando uomini pronti ad andare a combattere per la nostra libertà.”

Con immediatezza e semplicità Jim ribatté:”Voi siete un uomo padre!”.

Quanto possa essere complicata una risposta il signor McPowell lo capì in quel momento, senza avere il coraggio di guardare Jim rispose :”Si!”.

Tienimi la mano.

Cammini accelerando il passo, cerchi di starmi dietro con le tue gambine piccole.

A volte inciampi nei tue passi ancora troppo leggeri e distratti, mi chiami papà, mi canti una canzone.

Io cerco sempre di tenerti ben salda la mano, mi piace sentire come mi stringi quando stai per fare un salto o quando ti tieni a me se stai per cadere.

Ti ascolto, non sempre riesco a sentire la tua vocina, le auto urlano sempre di più, tu ripeti dolce, ripeti piano e allora io rispondo quel che posso e come posso. La tua voce è sottile e armoniosa e non pare fatta se non per cantare e sorridere.

Ancora una volta salti, ti arrampichi su di un muretto e ancora mi tieni la mano, ti senti sicura se mi stringi le dita, sai che salterai ed io sarò lì a non farti cadere, io so di essere con te a saltare in un attimo di tempo che vorrei infinito. 

Mi metto sempre tra te e la strada, è istinto, è protezione, le auto urlano ma tu sei lì e io non posso che sentire indistinto il rumore del tutto, tutto fa rumore ma tu no. 

Saluti, alzi la mano e la muovi nel gesto semplice di uno ciao; armoniosa e innocente e ti stringo la mano perché quando ti rispondo ti illumini di gioia vera e cara. Non guardo mai gli occhi di chi risponde al tuo saluto, ma guardo te e anche io rido semplice e vero come quando ero bambino.

A volte dici di esser grande e che, al sicuro e lontano da pericoli, vuoi camminare senza darmi la mano; io lascio la presa e rallento affinché tu possa sentirti libera, libera di volare a due passi da me nella tua fantasia di esser grande. Ti fermi, ti volti e torni da me dandoti il sollievo del tuo papà e dandomi il sollievo di sentire la tua piccola manina.

Le auto urlano, le persone parlano, ma io e te camminiamo lungo una delle tante strade che farai, le strade sono state tante per me e lo saranno per te. Uniche, magnifiche, inebrianti, le strade del mondo sono strette e larghe, con dei gradini dove puoi saltare e delle discese dove potrai correre. Le tue strade ora, per ora, sono le nostre.

Più piccola ti appendevi alle nostre braccia e i tuoi piedini si sollevavano in un lungo altalenare e sorridevi persa nella sensazione di volare, le braccia mie e di mamma ti alzavano nel sogno e il tuo viso si trasformava nel nostro sogno vivo e ridente.

Io cammino con te e le auto non urlano più, la gente forse sbraita ma io non l’avverto, il tempo passa e non pesa, le auto forse passano ma ormai nemmeno le vedo. 

Quando il mondo, il senso della vita si risolve in una manina e al candore della tua voce allora il mondo è il posto più bello che ci sia.

Con te non ho paura e solo perché mi tieni la mano.

La stanza nella roccia 2

2

Il rientro, a differenza della mattina, vedeva McPowell impegnato ad instradare le bestie al recinto, coadiuvato da Point, mentre Jim si precipitava dalla madre la quale gli dava lezioni di inglese, matematica e geografia e che il ragazzo sembrava apprezzare molto. Soprattutto adorava la geografia e scorrere il dito sui confini delle terre indicate dalla madre ad immaginarsi come potessero essere quelle terre tanto vicine al suo dito ma tanto lontane nella sua immaginazione. Ogni volta che lo sguardo si posava su una costa non riusciva a non immaginare di sbarcare in quel luogo al comando di una spedizione, non sapeva imparare come si chiamava un posto o un mare senza che questi non fossero immagini complesse e ritorte in un’avventura di prodi esploratori in cerca di qualche meraviglia mai vista prima. La mente di Jim era una fucina formidabile di curiosa fantasia e immaginazione creativa. I suoi occhi di bambino riuscivano a vedere in un attimo avventure che altri avrebbero potuto scrivere in volumi di centinaia e centinaia di pagine. 

Per la matematica nutriva curiosità più perché non la capiva, questo lo metteva a contatto con un lato del suo animo che era esposto ad ogni ignoranza con atteggiamento di scoperta. 

Il procedimento non era dissimile a quando scorrazzava sulla cartina geografica ma era meno inteso perché con i numeri proprio non riusciva a farci la guerra o sconfiggere il drago della logica. 

Intendiamoci, se Jim avesse voluto avrebbe potuto vedere nella cifra del tre anche una mostruosa anaconda, ma la logica a cui era costretto faceva in modo che la leggerezza dei confini geografici gli risultassero più congeniali e meno ostruttivi.

Quello in cui riusciva meglio era leggere. 

Jim si lanciava in ogni sorta di lettura e questa sua propensione faceva in modo che le lezioni di lingua inglese fossero leggere e semplici. La sua vera e propria passione per la lettura gli permetteva di correre senza doversi muovere, vivere le avventure come le voleva e quando le voleva. 

Era un lettore così insaziabile che già alla sua tenera età lesse quasi tutti i libri in possesso alla sua famiglia e non di rado correva a spendere i suoi risparmi ad acquistare qualche libro si avventure al Villaggio vicino. 

A volte quando usciva per comprare un nuovo libro correva così a perdifiato che all’arrivo nella bottega della signora Rosemary non aveva neanche la forza di guardarsi attorno e doveva sedersi per riprendere fiato e inoltrarsi tra quegli scaffali pieni di riviste e libri. 

Spesso rimaneva tra gli scaffali interminabili minuti a cercare di fare la scelta migliore per la sua prossima lettura, indeciso tra un titolo accattivante o un autore che gli piaceva, spesso la signora Rosmary cercava di aiutarlo suggerendo questo o quel libro o magari un bel racconto illustrato. 

Jim odiava i racconti illustrati, era solito ribattere ai tentativi della vecchia bottegaia con la frase :”Se avessi voluto il sogno di un’altra avrei fatto il veggente!”.

La signora Rosmary era sempre divertita da quella risposta e allora lasciava il ragazzo alla sua scelta infinita fino a quando non fosse pronto e risoluto. 

Se la corsa per l’acquisto era a perdifiato quella per il ritorno era anche più forsennata.

La fretta di sedersi e cominciare a leggere era tale per cui il ragazzo spesso cominciava a leggere seduto fuori l’uscio di casa e di dimenticarsi di avvisare del suo rientro. 

Più volte il signor McPowell, vedendo che il ragazzo tardava, apriva la porta di casa per guardare se arrivasse per poi scoprire che era seduto e sudato immerso nella lettura fino al punto da non sentire né la porta aprirsi né il padre che gli rimproverava di aver di nuovo fatto quella cosa tanto odiosa di non averli avvisati. 

Quando Jim aveva un libro nuovo da leggere era come se al mondo non esistesse altro che quel libro. Nei giorni in cui era impegnato con una nuova lettura le sue corse su e giù con Point si riducevano di molto, il signor McPowell poteva pranzare senza dover rispondere decine di curiosità e anche le pecore sembravano godere del momentaneo silenzio che Jim regalava a tutti. 

Per McPowell era una soddisfazione vedere suo figlio così immerso e preso da una passione così sana, quanto, però, dovesse ammettere con se stesso che pareva che Jim avesse una passione fin troppo profonda per la lettura e che questi perdesse addirittura il contatto con la realtà quando si immergeva in un racconto. 

Per quanto McPowell fosse contento doveva fare anche i conti con un aspetto della sua mentalità di padre che gli imponeva di farsi domande sul figlio anche per qualcosa per cui ogni altro genitore avrebbe bramato accadesse.

Era così perplesso che più di una volta chiese alla moglie se fosse normale tanto coinvolgimento ed ogni volta la donna lo rassicurava argomentando che sarebbe stato pur meglio questo piuttosto di altro.

“I libri non hanno mai ucciso nessuno!”, diceva la donna mentre nascondeva un sorrisino affaccendandosi in una qualsiasi questione casalinga. 

Se l’innocente preoccupazione di McPowell si palesava quando Jim aveva un libro tra le mani, cosa che poteva durare anche giorni e giorni, spariva quando questi finiva la lettura e tronava ed essere il condottiero indomito delle sue fantastiche avventure e ricominciava a tempestare il padre di nuove e più numerose domande. 

Erano così le giornate di Jim, alternate tra dovere, fantasticherie e studio e la vita bastava a se stessa,trovava nella cadenza giornaliera di giochi e corse il suo stesso motivo di esistenza. 

La vita della famiglia McPowell e di Jim era semplice, costruita in un modo facile e innocuo. I mattoni della loro esistenza poggiavano su una base placida, solida; le pecore, i campi, il mare e l’immenso cielo cupo, che solo raramente si squarciava per lasciar esplodere il sole si ogni cosa, bastavo a definire qualcosa che non aveva necessità di essere considerato con strani sofismi, soprattutto per un bambino.

La semplicità non è mai una cosa scontata ma per fare queste considerazioni non basta l’animo di un bambino che la semplicità ce l’ha nelle vene e gli scorre dentro senza il minimo fruscio. La semplicità per un ragazzo come Jim era l’erba sotto le scarpe, un gabbiano posato su uno spuntone di roccia, il fuoco del camino. Non aveva bisogno di artifici per valutare quella vita semplicitá e non aveva bisogno di preoccuparsi di cosa fosse fatta. Bastava a tutto così com’era e niente avrebbe potuto cambiare le cose, perché avrebbe dovuto interessarsi di una cosa, che così com’era, altro non era che aria che riempie i polmoni e a cui non pensi che se mancasse, anche solo per un attimo, ti sentiresti morire.

Le corse, le fantasie, i libri, Point, il padre e la madre, la loro casa era un unico e Jim la prendere per quel che era, per quel che è giusto che sia per un bambino. Non vi erano condizioni perturbative, non vi era interesse nel ragazzo di vedere dentro i motivi per cui tutto era esattamente così com’era e se la godeva alla grande a vivere tutto il suo tempo senza dover badare se non alla sua immensa sete di vita e al sapore che aveva la sua stupenda libertà.

Non di rado veniva a trovarlo un suo amico, un certo Phil che abitava non molto distante. Phil si caricava su una vecchia bicicletta, evidentemente di suo padre o di suo nonno, e andava a trovare Jim nei fine settimana e passavano ore a scorrazzare su e giù per i prati perdendosi dietro a chissà quale avventura. 

In una di queste scorribande i due si inerpicarono su per la bicicletta di Phil e una volta assicurato Point in una sorta di cestino antistante il manubrio si spinsero fino al vicino paese e lo girarono tutto con la curiosità di spingersi fino alle vie che non avevano mai visto. Non c’è da sorprendersi seni due non conoscessero bene quel paese perché si andava li solo per provvedere nel caso ci fosse stato bisogno di fare qualche acquisto e spesso bastava fermarsi alla merceria della vecchia Rosemary per trovare quello di cui si aveva bisogno. 

Proprio per questo motivo i due non avevano mai visto più di tanto di quel cumulo di viottole e proprio per questo decisero di girare il paese in lungo e in largo. 

Arrivati in prossimità del paesino i due dovettero fare a cambio e Jim si lancio nella guida, e soprattutto nella pedalata, della bicicletta che cominciava a cigolare sui ciottoli irregolari dell’unica vera strada che percorreva il paese. 

Point scrutava tutto con aria curiosa ma si concedeva anche di appoggiare il musetto al cestino quando le vibrazioni non erano tali da infastidirlo. 

Il terzetto si lancio alla scoperta di ogni viuzza, guardava ogni casa, ogni albero e la vista di quei posti sconosciuti gli metteva nell’animo quel senza di scoperta che deve essere tipico e caratteristico proprio del genere umano. Più si addebtravano nel paese e più si accorgevano che era tutto nuovo, interessante, più di quanto lo stesso paesino lo fosse effettivamente. 

La mente dei ragazzi volava molto più veloce della loro bicicletta e certo sarebbe potuta andare anche molto più lontano se le forze non avessero dovuto fare i conti con il peso dell’allegro convoglio.

Stremato e ansimante Jim si fermò e i tre decisero di concedersi un breve riposo.

Point saltò dal cestino e subito si diede da fare per delimitare il nuovo territorio mentre Jim e Phil approfittarono di una fontanella per rifocillarsi e prender fiato. 

“Tutto sommato non è grande qui!”, Disse Jim ansimando e asciugandosi le labbra con la manica della giacca.

“Non rispose Phil, credevo fosse più grande. Lo immaginavo molto più grande.”, Rispose Phil prima di concedersi un sorso d’acqua.

Decisero a quel punto di proseguire verso uno dei tanti filatoi dove lavoravano la lana e di sbirciare dentro cosa facessero di tutta quella lana che le loro famiglie provvedevano a fornirgli. 

Si incamminarono e di li a poco furono nei pressi di un capannone grigio e dal tetto tondeggiante. 

Assicurato un parcheggio degno alla bicicletta cercarono di capire come poter guardare entro il capannone. Anche se avessero potuto chiedere di entrare e guardare senza particolari problemi al custode decisero che sarebbe stato molto più interessante sbirciare senza essere visti e divisero di inerpicarsi lungo una pila di balle che portava ad uno dei finestrini semi aperti del capannone. 

È inutile dire che quella pila di balle era più simile ad una montagna insidiosa per i due, avrebbe potuto essere il monte Everest o il K2 per Jim e come tali furono affrontate con tutta capacità immaginativa che potessero. 

Fu tale la gioia per essere in cima che poco badarono alla semplicità con cui Point si arrampicò e il fatto che lui li aspettasse ben accucciato non incrinò nemmeno per un attimo la conquista della vetta. 

Erano così soddisfatti Jim e Phil che avrebbero quasi voler avuto qualcosa da piantare su quella conquista ma la loro uscita non prevedeva una bandiera per la conquista.

Ricordandosi che il loro scopo era quello di sbirciare nel capannone e che per scelta avevano deciso che dovesse essere fatto di nascosto i due si accovacciarono e si avvicinarono al finestrone con atteggiamento ancora più furtivo e indagatore e nell’avvicinarsi si resero conto di quanto arrivassero dal capannone rumori duri, pesanti ed uno strano odore di olio. 

“Ma filare la lana è così rumoroso?”, Chiese Jim a Phil che alla domanda rese ancora più deciso il suo atteggiamento furtivo.

“Beh non saprei. Forse useranno qualche macchinario nuovo.”, Ribatté Phil strisciando verso il bordo.

Alla fine i due spinsero i loro musi oltre il bordo del finestrone e rimasero a guardare per un po’ quella massa che gli si stagliava sotto.

Era tutto grigio e fumoso, da quel finestrone usciva un odore pungente di metallo quasi come se un immenso polmone metallico inspirasse l’aria pura dall’esterno e la sputasse  fuori pregna di un ché di ferroso. A Phil sembrava come quando la catena della bicicletta doveva essere risistemata nei suoi ingranaggi e le mani si impregnavano di grasso, era la stessa specie di odore.

Sotto di loro un brulicare di nastri, ingranaggi, presse e scintille producevano un rombo pesante e continuo le cui vibrazioni portava ai ragazzi una strana sensazione di tremore, solo allora si accorsero che la pila di balle vibrava in maniera coordinata con l’incedere delle macchine della fabbrica.

Insieme alle macchine strisciavano e rumoreggiavano anche molti operai le cui fattezze rimanevano meno distinte delle enormi masse metalliche che governavano. 

Sembrava che quel posto dovesse vomitare immense quantità di metallo da un momento all’altro e che le stesse mura del capannone facessero fatica a contenere tutto quel trambusto di cose e persone in movimento. 

I due ragazzi rimasero affascinati e interdetti a vedere quello spettacolo, tutto immaginavano ma non certo che in quel capannone ci fosse bisogno di tutto quel trambusto per filare e lavorare la lana. Insomma loro sapevano che una fabbrica dove si lavora la lana non fa tutto quel rumore, percepivano, anche se non pienamente convinti, che quella proprio non era una fabbrica dove lavorassero la lana ma non riuscivano a definire cosa fosse tutto quello sbattere, stridii, vibrazioni.

Phil disse a mezza voce come se potesse essere sentito da qualcuno:”A me sembra l’inferno sto posto, altro che lana!”.

“Anche a me.”, Rispose Jim ancora più perplesso. 

Rimase ancora un po’ a sbirciare giù dal finestrone fino a che decisero di scendere e di andare via da lì prima che qualcuno potesse scoprirli. 

I tre scalatori ridiscesero la pila di balle e si fiondarono verso la bicicletta, in pochissimo tempo erano già lanciati verso la via del ritorno e piu andavano veloci e più le loro voci si facevano alte nel tentativo di discutere di quella fabbrica tanto strana. 

Le ipotesi si accavallavano di frenetiche e trovano posto le idee più assurde che potessero immaginare. 

Quel posto aveva qualcosa di sbagliato, qualcosa che i ragazzi non erano pronti ne a decifrare né a collocare in quello spazio di cose semplici ed estranee ad un rumoreggiare così altero e stridulo.

Quella fabbrica era estranea ai tempi ed ai ritmi placidi, cosa c’entrava una cosa così con il frusciare del vento tra i miliardi di fili d’erba, con l’incedere confuso delle pecore, con le colline sinuose?

Jim conosceva bene i rumori di quel posto, era la sua casa, e non aveva mai avuto la sensazione che uno qualsiasi dei rumori che lo circondava lo respingessero, lo infastidissero. Persino la finestra battente della sua camera non si poteva dire che lo infastidisse realmente, erano tutti rumori che lui conosceva e che aveva accettato come ritmo della sua vita. 

Nei rumori, negli odori, nei colori di quella fabbrica Jim percepì qualcosa di ignoto, fuori posto e, sinistramente, pauroso.

Una verità, mille verità, un centro fra mille centri.

Non ci sentiamo, non ci tocchiamo, non siamo nemmeno simili, non mi assomigli per nulla e non siamo concordi su nulla.

A dire il vero io sono anche bello e tu sei un cesso, io sono al centro di qualcosa e tu non puoi vedere nemmeno i limiti esterni del mio centro, eppure rimane il fatto che siamo equidistanti ed inevitabilmente diversi.
Dal mio fottuto punto di vista sono io che decido cosa mi piace e dovrebbe piacere anche a te proprio perché sono io il centro eppure continui ad essere diverso e distante da me nonostante io abbia urlato, in silenzio, ma con le maiuscole, il mio fottuto e perfetto punto di vista.
In cosa e perché resti diverso se anche tu leggi quello che dico ? Ti ostini a voler partecipare leggendo qualcosa che nemmeno ti sognavi di percepire chiuso nel limbo della tua posizione lontana, immutabile, originale e vero. 


Rimani sveglio a cercare di farti spazio con mille spallate per arrivare al mio centro, ma non è il tuo. 
Digiti, digiti,digiti, spunti, like, dislike, cuore, arrabbiato, notti, settimane ed anni passati a spingere qualcuno che ti sembra più vicino a me, ma non puoi, il mio fottuto centro e incommensurabile, inarrivabile, originale e perfetto. 
Dove sei ora? Dormi? Mangi? Lavori? Cosa ci può mai essere di così fondamentale per cui non digiti,spunti,like e tutto il resto?
Pensi? E perché? A cosa pensi? E necessario c’è tu abbia un pensiero?


Dal mio centro ho scritto ed è perfetto! Non hai bisogno di pensare, l’ho già fatto io. Tu devi solo leggere, digitare e spuntare perché da qui, dal mio centro io so che lo fai perché devi.
Cosa dici? Parli? Perché mai dovresti avere un’opinione? Chi dovrebbe ascoltare l’opinione di un coglione che sta solo digitando, spuntando, like, dislike e tutto il resto?


Perché mai dovrei ascoltare, io sono il centro, io sono nell’origine del mio pensiero e non ho bisogno di conoscere, conosco tutto quello che mi è dato sapere.
Mi interessa la tua faccia, guardo le tue foto.
Ma sai che hai proprio una faccia da stronzo? Oh guarda, hai un gattino…..odio i gattini! Ma che ridi! Ridi pure ora con quella faccia che ti ritrovi?
Io non ho bisogno di sapere dove sei, che cosa pensi, cosa sogni, io so solo che devi digitare, spuntare, like, dislike e da te non ho bisogno d’altro.
Pensi di essere libero? Pensi che la mia sia un’accusa gratuita e del tutto insensata? Cosa fai? Rispondi maledetto inutile.
……


Database, relazioni, query, tabelle, grafici, siamo questo io e te. Tu distante nella tua squallida periferia e io nel mio perfetto punto di equilibrio. Mi interessi finché io interesso te.
Database riempiti con nomi, cognomi, sesso, tendenze, generi, libri, films, amicizie, gusti, ricerche, prodotti, voglio questo è quello.
Quale il tuo indice in questo posto? Come quale posto, in questa tabella, in questo fottuto database, quale il tuo indice? 
Ecco come vedi io sono il centro, io sono al centro perché il tuo indice è infinitamente più grande del mio e io non vedo che gente intorno e tutti hanno un indice inferiore al mio e al tuo, ergo, io sono il centro.
Cosa vuoi che mi interessi di facebook, di Twitter a me servi tu e la tua distanza perché così so di essere solo nel mio centro originale.
Dici che quella cosa l’hai letta dove? Davvero? Ma dai sarà una balla! Condivido, spunto, digito, like, dislike. Non so se è vero, ma condivido, digito, spunto….
Cosa? Parla forte, leggo male! Sto digitando, spuntando….
Cosa vorrebbe dire che anche tu hai qualcuno con indice superiore al tuo e che vedi qualcuno prima di te? Cosa? Tu sei il centro ? Ma brutto bastardo, io digito, spunto, like e dislike cosa vorrai mai sapere del centro tu, brutto ignorante…..io digito, spunto, like…..
Non riesci a muoverti? Anche io!

Devo fare a spallate per star impiedi e spostarmi, malessere folla di indici, grafici, database, sessi, maledetti.
Digito, spunto…….
Tu conosci la verità? Tu sei folle, dov’è la verità?
No, aspetta, tu sei al centro? Io digito, spunto, ho un’opinione sai? 
Aspetta, maledetto bastardo, sto dormendo.
Digito, spunto, condivido, condividi, la verità, il centro, la verità, il centro, follia, follia ,follia, dormo, spingono, dormo, cadono.
Sai, penso dovremmo andarcene via !

Ovunque, cazzo, ovunque ma dobbiamo andarcene da qui, dobbiamo respirar aria non già masticata.

Spingono.

Devo andare via, questo posto non ha più uscite, tutti spingono, digitano, spuntano, like, dislike.


Spengo.

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